In questo numero, dedicato alla memoria dell’Olocausto, si ripercorrono le tappe della vicenda umana e letteraria dello scrittore Primo Levi, internato ad Auschwitz e testimone della barbarie nazista.

Se questo è un uomo

Voi che vivete sicuri

Nelle vostre tiepide case,

Voi che trovate tornando a sera

Il cibo caldo e visi amici:

Considerate se questo è un uomo

Che lavora nel fango

Che non conosce pace

Che lotta per mezzo pane

Che muore per un si o per un no.

Considerate se questa è una donna,

Senza capelli e senza nome

Senza più forza di ricordare

Vuoti gli occhi e freddo il grembo

Come una rana d’inverno.

Meditate che questo è stato:

Vi comando queste parole.

Scolpitele nel vostro cuore

Stando in casa andando per via,

Coricandovi alzandovi;

Ripetetele ai vostri figli.

O vi si sfaccia la casa,

La malattia vi impedisca,

I vostri nati torcano il viso da voi.

Primo Levi

Il viaggio non durò che una ventina di minuti. Poi l’autocarro si è fermato, e si è vista una grande porta, e sopra una scritta vivamente illuminata (il suo ricordo ancora mi percuote nei sogni): ARBEIT MACHT FREI, il lavoro rende liberi. Siamo scesi, ci hanno fatto entrare in una camera vasta e nuda, debolmente riscaldata. Che sete abbiamo! Il debole fruscio dell’acqua nei radiatori ci rende feroci: sono quattro giorni che non beviamo. Eppure c’è un rubinetto: sopra un cartello, che dice che è proibito bere perché l’acqua è inquinata. Sciocchezze, a me pare ovvio che il cartello è una beffa, “essi” sanno che noi moriamo di sete, e ci mettono in una camera e c’è un rubinetto, e Wassertrinken verboten. Io bevo e incito i compagni a farlo; ma devo sputare, l’acqua è tiepida e dolciastra, ha odore di palude.
Questo è l’inferno. Oggi, ai nostri giorni, l’inferno deve essere così, una camera grande e vuota, e noi stanchi stare in piedi, e c’è un rubinetto che gocciola e l’acqua non si può bere, e noi aspettiamo qualcosa di certamente terribile e non succede niente e continua a non succedere niente. Come pensare? On si può più pensare, è come essere già morti. Qualcuno si siede per terra. Il tempo passa goccia a goccia.

Primo Levi

dall’incipit di “Se questo è un uomo”

LA VITA
Primo Levi è nato a Torino nel 1919. È morto suicida nel 1987.
Laureato in Chimica, ha diretto per anni una fabbrica di prodotti chimici.
Ebreo, partigiano nella Resistenza, fu catturato dai repubblichini di Salò e internato nel campo di sterminio di Auschwitz. L’esperienza tragica del campo di concentramento segnò profondamente tutta la sua vita; ad essa dedicò i suoi libri, tra i più belli della letteratura mondiale del Novecento.
Con lo pseudonimo di Damiano Malabaila ha scritto anche divertenti racconti fantastici.

BIBLIOGRAFIA
Le opere di Primo Levi sono state tutte pubblicate dalla casa editrice Einaudi, Torino.

NARRATIVA

Se questo è un uomo, 1947
La tregua, 1963
Storie naturali, 1966
Il sistema periodico, 1975
La chiave a stella, 1978
Se non ora, quando, 1982

I sommersi e i salvati, 1986

POESIA

Ad ora incerta, 1984

SAGGISTICA

L’altrui mestiere, 1985

E venne la notte

Ma il mattino del 21 si seppe che l’indomani gli ebrei sarebbero partiti. Tutti: senza nessuna eccezione. Anche i bambini, anche i vecchi, anche i malati. Per dove, non si sapeva...
E venne la notte, e fu una notte tale, che si conobbe che occhi umani non avrebbero dovuto assistervi e sopravvivere. Tutti sentirono questo: nessuno dei guardiani, né italiani né tedeschi, ebbe animo di venire a vedere che cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire.
Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva. Alcuni pregarono, altri bevvero oltre misura, altri si inebriarono di nefanda ultima passione. Ma le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno. Non fareste anche voi altrettanto? Se dovessero uccidervi domani col vostro bambino, voi non gli dareste oggi da mangiare?

La tregua: l’Odissea del ritorno

Sognavamo nelle notti feroci
Sogni densi e violenti
Sognati con anima e corpo:
Tornare; mangiare; raccontare.
Finché suonava breve sommesso
Il comando dell’alba:

Wstawac”.

E si spezzava in petto il cuore.

Ora abbiamo ritrovato la casa,
Il nostro ventre è sazio,
Abbiamo finito di raccontare.
È tempo. Presto udremo ancora
Il comando straniero:

Wstawac”.

Primo Levi, “La tregua”

“La tregua” è il racconto del lungo viaggio di ritorno dai campi di sterminio attraverso l’Europa: una narrazione che contempera il senso di una libertà ritrovata con i segni lasciati dagli orrori sofferti.

Giunsi a Torino il 19 ottobre, dopo trentacinque giorni di viaggio: la casa era in piedi, tutti i famigliari vivi, nessuno mi aspettava. Ero gonfio, barbuto e lacero, e stentai a farmi riconoscere. Ritrovai gli amici pieni di vita, il calore della mensa sicura, la concretezza del lavoro quotidiano, la gioia liberatrice del raccontare. Ritrovai un letto largo e pulito, che a sera (attimo di terrore) cedette morbido sotto il mio peso.
Ma solo dopo molti mesi svanì in me l’abitudine di camminare con lo sguardo fisso al suolo, come per cercarvi qualcosa da mangiare o da intascare presto e vendere per pane; e non ha cessato di visitarmi, ad intervalli ora fitti, ora radi, un sogno pieno di spavento...Ora questo sogno interno, il sogno di pace, è finito, e nel sogno esterno, che prosegue gelido, odo risuonare una voce, ben nota; una sola parola, non imperiosa, anzi breve e sommessa. È il comando dell’alba in Auschwitz, una parola straniera, temuta e attesa: alzarsi, “Wstawac”.

Primo Levi, “La tregua”

La chiave a stella: l’amore per la vita e per il lavoro

Il libro racconta le storie di Faussone, un montatore di gru, strutture metalliche, ponti sospesi, impianti petroliferi: un operaio specializzato che ha passato la sua vita tra contratti e trasferte internazionali come un grande direttore d’orchestra. Il racconto è una armonica fusione tra elementi di tono picaresco e ironico e altri di grande amore per il mestiere fatto con competenza e precisione.
Dalla lettura di questo libro sembra apparentemente che il peso opprimente della memoria del Lager sia decantato, perché è un inno al lavoro e alla vita. In realtà la ferita dell’orrore non si era chiusa.

“Il fatto è che di lavorare si parla tanto, ma quelli che ne parlano più forte sono proprio quelli che non hanno mai provato. Secondo me, il fatto dei nervi che saltano, al giorno d’oggi, capita un po’ a tutti, scrittori o montatori o qualunque altro commercio. Lo sa a chi non capita? Agli uscieri e ai marcatempo, quelli delle linee di montaggio; perché in manicomio ci mandano gli altri. A proposito di nervi: non creda mica che quando uno è lassù in cima, da solo, e tira vento, e il traliccio non è ancora controventato e è ballerino come una barchetta, e lei vede a terra le persone come le formiche, e con una mano sta attaccato e con l’altra mena la chiave a stella e le farebbe comodo di avere una mano numero tre per reggere il disegno e magari anche una mano numero quattro per spostare il moschettone della cintura di sicurezza; bene, le stavo dicendo, non creda mica che per i nervi sia una medicina”.

Primo Levi, “La chiave a stella”

I sommersi e i salvati

Ancora una volta si deve constatare, con lutto, che l’offesa è insanabile: si protrae nel tempo, e le Erinni, a cui bisogna pur credere, non travagliano solo il tormentatore (se pure lo travagliano, aiutate o no dalla punizione umana), ma perpetuano l’opera di questo negando la pace al tormentato. Non si leggono senza spavento le parole lasciate scritte da Jean Améry, il filosofo austriaco torturato dalla Gestapo, perché attivo nella resistenza belga, e poi deportato ad Auschwitz perché ebreo:
“Chi è stato torturato rimane torturato...chi ha subito il tormento non potrà più ambientarsi nel mondo, l’abominio dell’annullamento non si estingue mai. La fiducia nell’umanità, già incrinata dal primo schiaffo sul viso, demolita poi dalla tortura, non si riacquista più”
Non vogliamo confusioni, freudismi spiccioli, morbosità, indulgenze. L’oppressore resta tale, e così la vittima: non sono intercambiabili, il primo è da punire e da esecrare (ma, se possibile, da capire), la seconda è da compiangere e da aiutare; ma entrambi, davanti all’indecenza del fatto che è stato irrimediabilmente commesso, hanno bisogno di rifugio e difesa, e ne vanno istintivamente in cerca. Non tutti, ma i più; e spesso per tutta la loro vita.

Quest’ultimo libro di Primo Levi è uno scavo nella memoria, con la coscienza di essere un "salvato" nello sterminio, un’eccezione.
L’anno successivo lo scrittore si è suicidato.