LA RESISTENZA E LA SUA LUCE

 Così giunsi ai giorni della Resistenza

senza saperne nulla se non lo stile:

fu stile tutta luce, memorabile coscienza

di sole. Non poté mai sfiorire,

neanche per un istante, neanche quando

l’Europa tremò nella più morta vigilia.

Fuggimmo con le masserizie su un carro

da Casarsa a un villaggio perduto

tra rogge e viti: ed era pura luce.

Mio fratello partì, in un mattino muto

di marzo, su un treno, clandestino,

la pistola in un libro: ed era pura luce.

Nella soffitta del casolare mia madre

guardava sempre perdutamente quei monti,

già conscia del destino: ed era pura luce.

Coi pochi contadini intorno

vivevo una gloriosa vita di perseguitato

dagli atroci editti: ed era pura luce.

Venne il giorno della morte

e della libertà, il mondo martoriato

si riconobbe di nuovo nella luce…

Quella luce era speranza di giustizia:

non sapevo quale: la Giustizia.

La luce è sempre uguale ad altra luce.

Poi variò: da luce divenne incerta alba,

un’alba che cresceva, si allargava

sopra i campi friulani, sulle rogge.

Illuminava i braccianti che lottavano…

Così l’alba nascente fu una luce

fuori dell’eternità dello stile…

Nella storia la giustizia fu coscienza

d’una umana divisione di ricchezza,

e la speranza ebbe nuova luce.

            Pier Paolo Pasolini 

La scelta per la libertà

 Il caso descritto dal filosofo Jean Paul Sartre è emblematico dei conflitti interiori in cui si trovarono molti giovani che scelsero la lotta per la libertà. Gran parte della riflessione letteraria sulla Resistenza, anche nei libri consigliati in questo numero di Segnali, riecheggia tematiche affini  a quelle del pensatore esistenzialista.

 Citerò il caso di un  mio allievo, venuto a chiedermi consiglio nelle circostanze seguenti. Nella sua famiglia i rapporti tra il padre e la madre si erano guastati e d’altra parte il padre tendeva a collaborare coi tedeschi; il figlio maggiore era caduto durante l’offensiva germanica del ‘40, mentre il figlio minore, il mio allievo, giovane dotato di sentimenti un po’ primitivi ma generosi, lo voleva vendicare. La madre viveva sola con l’ unico figlio rimastole, affranta per il mezzo tradimento del marito e per la fine dell’altro figlio, e vedeva in lui la sola consolazione. Quel giovane in quel momento poteva scegliere tra partire per l’Inghilterra e arruolarsi nelle Forze Francesi di liberazione—e quindi abbandonare la madre—o restare presso la madre e consolarne l’esistenza. Si rendeva ben conto che la donna viveva solo per lui e che il suo andarsene via—e forse anche la sua morte—l’avrebbero gettata nella disperazione.

Si rendeva anche conto che in fondo, su di un piano concreto, il rimanere con la madre voleva senz’altro dire aiutarla a vivere, mentre la scelta di partire e combattere era un atto il cui risultato poteva essere incerto, perdersi nella sabbia, non servire a niente [...] Si  trovava quindi di fronte a due tipi di condotta assai differenti: una concreta, immediata, ma che si rivolgeva a un individuo soltanto; un’altra che si rivolgeva a un insieme infinitamente più vasto, a una collettività nazionale, ma che era, per questo fatto stesso, incerta e che poteva interrompersi per strada. [...]Venendomi a trovare, quel giovane conosceva la risposta che gli avrei dato, e io stesso non potevo dargliene un’altra: tu sei libero, scegli, cioè inventa. [...] L’uomo non è niente altro che quello che progetta di essere.

Jean Paul Sartre

 La pietà

Egli sedette a un tavolino di ferro, guardò e vide il tedesco, nell’angolo presso la porta, seduto anche lui che aspettava.

Gli strizzò l’occhio.

“Eh?” il tedesco chiese.

Era non più un ragazzo, col nastrino, al petto, di una campagna, non di una decorazione. E la sua voce fu molto timida. “Eh?” chiese.

L’operaio voltò via il suo muso piccolo da lui.

Dio di Dio! Che aveva un tedesco da essere triste a quel modo?

Sedeva, le gambe larghe, la schiena appoggiata alla spalliera della sedia, la testa un po’ indietro, e la faccia triste, persa, una stanca faccia da operaio.

Dio mio! O non aveva conquistato? Non era in terra conquistata? Che cosa aveva da esser così triste, un tedesco che aveva conquistato?

Tornò a guardarlo, e vide che quello non lo guardava. Aveva gli occhi più in basso, come umiliato. Un momento si osservò le mani; da una parte, dall’altra, entrambe insieme, e fu un gesto lungo come ne fanno solo gli operai.

Dio mio! Egli pensò di nuovo.

Lo vide non nell’uniforme, ma come poteva essere stato: indosso panni di lavoro umano, sul capo un berretto da miniera. [...]

Si rialzò, una mano in tasca, e si avvicinò alla porta.

L’aprì.

Il tedesco sollevò il capo, e, mestamente gli sorrise: anche dolcemente. Pareva di vedere sulla sua faccia che cosa fosse lo sporco di carbone.

Egli uscì.

Dio di Dio! Pensava. Prese la moto e ne spinse a fondo la pressione. Nessuno accorse dalla casa, e fuggì sulla moto. Nessuno sparò dietro a lui.

“Sei pallidino”, gli disse Orazio.

“È  stata la corsa”.

“La corsa?”

Scaraventarono la moto nel fosso, ne aprirono il serbatoio e dettero fuoco alla benzina.

“Questo è tutto”, disse l’operaio. “una moto in meno”.

“Non l’hai fatto fuori?”

“Era troppo triste”.

Orazio gridò a Metastasio.

“Non l’ha fatto fuori”, gli gridò. “Dice che era un tipo troppo triste”.

Metastasio si strinse nelle spalle.

“Sembrava un operaio” disse l’operaio.

“E chi ti dice niente?” Orazio disse.

Risalirono e ripartirono.

“Sono stato soldato anch’io”, disse l’operaio.

“Nessuno ti dice niente”.

“Mi hanno mandato in Russia”.

“Ma chi ti dice niente?”

Si avvicinarono a Milano. C’erano terrapieni di ferrovia, cartelli pubblicitari d’altri tempi, sottopassaggi, incroci di strade, e sempre il freddo sulla pianura, la nebbia lieve.

“Imparerò meglio”, disse l’operaio.

Elio Vittorini

I sogni dei partigiani

 I sogni dei partigiani sono rari e corti, sogni nati dalle notti di fame, legati alla storia del cibo sempre poco da dividere in tanti: sogni di pezzi di pane morsicati e poi chiusi in un cassetto. I cani randagi devono fare sogni simili, d’ossa rosicchiate e nascoste sottoterra. Solo quando lo stomaco è pieno, il fuoco è acceso e non s’è camminato troppo durante il giorno, ci si può permettere di sognare una donna nuda e ci si sveglia al mattino sgombri e spumanti, con una letizia come d’ancore salpate.

Allora gli uomini nel fieno cominciano a parlare delle loro donne, di quelle passate e di quelle future, a fare progetti per quando la guerra sarà finita, e a passarsi fotografie ingiallite.

La Ghiglia dorme vicino al muro, al di là di suo marito basso e calvo. Al mattino ascolta i discorsi degli uomini carichi di voglia, e sente tutti gli sguardi che s’avvicinano a lei come una schiera di bisce tra il fieno. S’alza allora, e va alla fontana a lavarsi. Gli uomini rimangono nel buio del casolare con pensieri di lei che s’apre la camicia e s’insapona il petto. Il Dritto, ch’è sempre stato in silenzio, s’alza e va a lavarsi anche lui. Gli uomini insultano Pin che legge i loro pensieri e li canzona.

Pin è in mezzo a loro come tra gli uomini dell’osteria, mas in un mondo più colorato e più selvatico, con quelle notti passate sul fieno, e quelle barbe cariche d’insetti. C’è in loro qualcosa di nuovo che attrae e impaurisce Pin, oltre quella ridicola smania di donne comune a tutti i grandi.

Italo Calvino

Ogni guerra è una guerra civile

Sui colli, sul ponte di ferro, durante settembre non è passato giorno senza spari – spari isolati, come un tempo in stagione di caccia, oppure rosari di raffiche -.  Ora si vanno diradando, quest’è davvero la vita dei boschi come si sogna da ragazzi. E a volte penso che soltanto l’incoscienza dei ragazzi, un’autentica, non mentita incoscienza, può consentire di vedere quel che succede e non picchiarsi il petto. Del resto gli eroi di queste valli sono tutti ragazzi, hanno lo sguardo dritto e cocciuto dei ragazzi. E se non fosse che la guerra ce la siamo covata nel cuore noialtri – noi non più giovani, noi che abbiamo detto “venga dunque se deve venire” – anche la guerra, questa guerra, sembrerebbe una cosa pulita. Del resto, chi sa. Questa guerra ci brucia le case. Ci semina di morti e fucilati piazze e strade. Ci caccia come lepri di rifugio in rifugio. Finirà per costringerci a combattere anche noi, per strapparci un consenso attivo. E verrà il giorno che nessuno sarà fuori dalla guerra – né i vigliacchi, né i tristi, né i soli .-

[...] Non so se Cate, Fonso, Dino, e tutti gli altri torneranno. Certe volte lo spero, e mi fa paura. Ma ho visto i morti sconosciuti, i morti repubblichini (i fascisti seguaci della Repubblica di Salò, n.d.r.). Sono questi che mi hanno svegliato. Se un ignoto, un nemico, diventa morendo una cosa simile, se ci si arresta e si ha paura a scavalcarlo, vuol dire che anche vinto il nemico è qualcuno, che dopo averne sparso il sangue bisogna placarlo, dare una voce a questo sangue, giustificare chi l’ha sparso. Guardare certi morti è umiliante. Non sono più faccenda altrui; non ci si sente capitati sul posto per caso. Si ha l’impressione che lo stesso destino che ha messo a terra quei corpi, tenga noialtri inchiodati a vederli, a riempircene gli occhi. Non è paura, non è la solita viltà. Ci si sente umiliati perché si capisce – si tocca con gli occhi – che al posto del morto potremmo essere noi: non ci sarebbe differenza, e se viviamo lo dobbiamo al cadavere imbrattato. Per questo ogni guerra è una guerra civile: ogni caduto somiglia a chi resta e gliene chiede ragione. [...] Io non credo che possa finire. Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbe chiedersi: - E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”

Cesare Pavese

NON GRIDATE

Cessate di uccidere i morti,

non gridate più, non gridate

se li volete ancora udire,

se sperate di non perire.

Hanno l’impercettibile sussurro,

non fanno più rumore

del crescere dell’erba,

lieta dove non passa l’uomo.

Giuseppe Ungaretti

La solidarietà internazionale

Durante la guerra civile spagnola volontari di tutto il mondo accorsero per combattere il colpo di stato fascista del generale Francisco Franco. Il protagonista del romanzo “Per chi suona la campana” di E. Hemingway è uno di loro, un giornalista americano che, collaborando con un gruppo di spagnoli, deve svolgere un’azione di sabotaggio.

 Lui è un comunista disse Maria. “I comunisti sono gente molto seria”.

“Sei un comunista?”

“No, sono un antifascista.”

“Da molto tempo?”

“Da quando ho capito il fascismo.”

“Da quando, cioè?”

“Da quasi dieci anni.”

“Non è molto” la donna disse. “Io sono repubblicana da vent’anni.”

“Mio padre è stato repubblicano tutta la vita” disse Maria. “Perciò lo fucilarono.”

“Anche mio padre è stato repubblicano tutta la sua vita” disse Robert Jordan, “e anche mio nonno.”

“In quale paese?”

“Negli Stati Uniti.”

“Li hanno fucilati?”

“Qué va!” disse Maria. “Gli Stati Uniti sono un paese repubblicano e lì nessuno è ucciso perché è repubblicano.”

Ernest Hemingway

Accadeva nelle piazze

Sulla piazza c’era un gruppo di gente: stavano stretti, uniti, e guardavano tutti da una parte, guardavano tutti là in fondo a un grande albero nudo, a cui era appeso un impiccato. Lungo, inverosimile, pareva di legno: aveva le punte dei piedi, enormi, stese verso terra, e attaccato al petto un cartello grande, bianco. Intorno all’albero stavano tre o quattro tedeschi e dei soldati della guardia nazionale repubblicana. Ridevano e battevano il passo per riscaldarsi. Uno di essi, con un bastone, si mise a dare dei colpi regolari alle ginocchia del morto che oscillava in qua e in là con lo stesso ritmo della campana. E altri, in coro, gridavano: “Don, don, don,”. Scoppiarono degli urli acuti dalla casa di fronte, una voce disperata che piangeva, ma qualcuno chiuse la finestra, la porta; le voci non si udirono più. Un tedesco disse: “Basta campana”, e subito un milite fascista corse verso la chiesa, e anche la campana, dopo un minuto, tacque. La gente sulla piazza era sempre immobile e silenziosa, nell’aria bagnata come fosse di pietra.

I tedeschi cantarono un inno nella loro lingua, poi Giovinezza insieme ai fascisti. Alla fine uno di essi gridò, con voce lacerata, quasi femminile: “Noi questo fare a spie e traditori”, e sparò in aria una raffica di mitra. Una donna del gruppo fece un passo, si rovesciò per terra svenuta, floscia come uno straccio. Rimase là, nera, nel fango; tutti si guardavano, con incertezza, non si azzardavano a soccorrerla. Il tedesco venne verso di loro, li fece indietreggiare aprendosi un varco tra le facce bianche, spaventate, urtò appena col piede il corpo disteso. Urlò: “Voi portarla via, via, via”. E tutti si mossero confusi, come un branco di pecore.

L’Agnese si fece indietro piano piano tirando la bicicletta, entrò nel vicolo fra due case. Ma prima riuscì a stento per la distanza, a compitare la parola in grande sul cartello dell’impiccato. C’era scritto: “partigiano”.

Renata Viganò

Un caso di coscienza

Beppe Fenoglio racconta, in questo romanzo del 1963, la storia di un giovane soldato fascista, Milton, in un momento di profonda crisi della sua coscienza. Il passo che segue descrive alcuni momenti della confessione a don Marco, nel corso della quale manifesta la sua intenzione di disertare e aggregarsi ai partigiani. Il sacerdote, che pure aiuta i partigiani stessi, gli consiglia di aspettare.

 Il soldato respirò forte. – Lei mi dice che c’è tempo – continuò, - e lei sa quel che si dice. C’è tempo per la fine della guerra e c’è tempo per disertare. Ma per mantenersi puliti, per salvarsi la coscienza c’è ancora  tempo?

– Cosa vuoi dire? Domandò don Marco che pure aveva capito benissimo.

– Voglio dire che appena il colonnello avrà svoltato l’angolo in caserma cambierà tutto. Queste cose sono nell’aria. I nuovi comandanti sanno benissimo che molti di noi non sono per niente convinti e che quindi non vogliamo e non possiamo fare certe cose. E loro invece vogliono che anche noi si faccia quelle cose, non vogliono che noi ci salviamo. Si dice già che d’ora in poi tutti usciranno in rastrellamento, anche quelli che finora non erano mai usciti, faranno uscire anche gli scritturali e gli infermieri. E tutti dovremo sporcarci le mani di sangue, tutti dovremo dar fuoco alle case, per essere così tutti allo stesso piano, per essere tutti indistintamente disperati e dannati come loro che sono già criminali di guerra. E così i partigiani che prenderemo non li fucilerà più il solito boia col mitra, ma ci saranno i plotoni di esecuzione regolari, e ognuno di noi a turno dovrà far parte di questi plotoni. E ho sentito dire dall’attendente del comandante Venturi che guai a quelli che sbaglieranno il tiro, a quelli che mireranno fuori. E io, piuttosto di fucilare, non poter più dire ai partigiani quando scenderanno che non ho fatto mai nulla di male e che se mi uccidono fanno peccato mortale…io piuttosto non sento nemmeno più il desiderio di rivedere mia madre e casa mia.

Tacevano, o meglio parlavano a sospiri attraverso la grata.

– Vede, padre, – disse il soldato, – che il tempo c’è e non c’è?

- Hai ragione, – disse don Marco, – hai ragione tu. Tu resisti, tu rifiutati, fatti magari picchiare e mettere in prigione, datti qualche volta ammalato. Io intanto accelero la pratica al massimo, stringo i tempi, faccio capire a certe persone quanto sia urgente. È   tremendamente importante, sai? quello che mi hai detto. E intanto tu dì il rosario, sempre, ogni momento che puoi. Anche se uscirai in rastrellamento, marciando recita il tuo rosario.

Beppe Fenoglio

La cultura che ci salverà

Elio Vittorini è stato direttore della rivista torinese “IL Politecnico”, sulla quale, nel secondo dopoguerra, gli intellettuali si confrontarono in modo serrato sui rapporti tra cultura e potere. Scrisse questo appello per una cultura diversa e impegnata nel N°1 della rivista.

 Per un pezzo sarà difficile dire se qualcuno o qualcosa abbia vinto in questa guerra. Ma certo vi è tanto che ha perduto, e che si vede come abbia perduto. I morti, se li contiamo, sono più di bambini che di soldati; le macerie sono di città che avevano venticinque secoli di vita; di case e di biblioteche, di monumenti e di cattedrali, di tutte le forme per le quali è passato il progresso civile dell’uomo; e i campi su cui si è sparso più sangue si chiamano Mathausen, Maidanek, Buchenwald, Dakau.

Di chi è la sconfitta più grave in tutto questo che è accaduto? Vi era bene qualcosa che, attraverso i secoli, ci aveva insegnato a considerare sacra l’esistenza dei bambini. Anche di ogni conquista civile dell’uomo ci aveva insegnato che era sacra; lo stesso del pane, lo stesso del lavoro. E se ora milioni di bambini sono stati uccisi, se tanto che era sacro è stato lo stesso colpito e distrutto, la sconfitta è innanzitutto di questa “cosa” che ci insegnava l’inviolabilità loro. Questa “cosa”, voglio subito dirlo, non è altro che la cultura (…).

Non vi è delitto commesso dal fascismo che questa cultura non avesse insegnato ad esecrare già da tempo. E se il fascismo ha avuto modo di commettere tutti i delitti che questa cultura aveva insegnato ad esecrare già da tempo, non dobbiamo chiedere proprio a questa cultura come e perché il fascismo ha potuto commetterli?

Dubito che un paladino di questa cultura, alla quale anche noi apparteniamo, possa darci una risposta diversa da quella che possiamo darci noi stessi e non riconoscere come noi che l’insegnamento di questa cultura non ha avuto che scarsa, forse nessuna, influenza civile sugli uomini.

Pure, ripetiamo, c’è Platone in questa cultura. E c’è Cristo. Dico: c’è Cristo. Non ha avuto che scarsa influenza Gesù Cristo? Tutt’altro. Egli molta ne ha avuta. Ma è stata influenza, la sua, e di tutta la cultura fino a oggi, che ha generato mutamenti quasi solo nell’intelletto degli uomini, che ha generato e rigenerato dunque se stessa, e mai, o quasi mai, rigenerato, dentro alle possibilità di fare, anche l’uomo.

(…) Potremo mai avere una cultura che sappia proteggere l’uomo dalle sofferenze invece di limitarsi a consolarlo? Una cultura che le impedisca, che le scongiuri, che aiuti a eliminare lo sfruttamento e la schiavitù, e a vincere il bisogno, questa è la cultura in cui occorre che si trasformi tutta la vecchia cultura.

Elio Vittorini

Il ricordo di chi è caduto

Pier Paolo Pasolini rievoca in una lettera la morte del fratello Guido, iscritto a “Giustizia e libertà”, ucciso in un agguato da un gruppo di partigiani di diverso orientamento ideale, comunisti vicini a Tito. Lo scrittore friulano si sente erede degli ideali civili libertari per i quali il fratello è morto.

 Nel gennaio del ’45 era con Bolla e Enea a Porzùs, dove gli osovani si stavano riorganizzando dopo il disastroso rastrellamento del novembre. Frattanto Guido si era iscritto al Partito d’Azione. Il giorno in cui Bolla e Enea furono ammazzati egli si trovava a Musi con l’amico D’Orlandi per non so che missione; e stavano tornando insieme verso Porzùs. Ed ecco che alcuni loro compagni (i quali, dislocati in una malga sottostante, si erano accorti del tradimento, e si stavano ritirando), avvisarono i due ragazzi del pericolo. Ma essi non vollero saperne di tornare sui loro passi, e anzi si slanciarono di corsa verso Porzùs per portare aiuto agli amici! […] Spesso penso al tratto di strada tra Musi e Porzùs percorso da mio fratello in quel giorno tremendo; e la mia immaginazione è fatta radiosa da non so che candore ardente di nevi, da che purezza di cielo. E la persona di Guido è così viva. ”

 Il 21 agosto 1945 così scrisse a Luciano Serra:

 “Bisognerebbe essere capaci di piangerlo sempre senza fine, perché solo questo potrebbe essere un poco pari all’ingiustizia che lo ha colpito. Eppure la nostra natura umana è tale che ci permette di vivere ancora, di risollevarci, perfino, in qualche momento. Perciò l’unico pensiero che mi conforta è che io non sono immortale; che Guido non ha fatto altro che precedermi generosamente di pochi anni in quel nulla verso il quale io mi avvio. E che ora mi è così famigliare; la terribile oscura lontananza o disumanità della morte mi si è così schiarita da quando Guido vi è entrato. Quell’infinito, quel nulla, quell’assoluto contrario ora hanno un aspetto domestico; c’è Guido, mio fratello, capisci, che è stato per vent’anni sempre vicino a me, a dormire nella stessa stanza, a mangiare nella stessa tavola. Non è dunque così innaturale entrare in quella dimensione così a noi inconcepibile. E Guido è stato così buono così generoso da dimostrarmelo, sacrificandosi pel suo fratello maggiore, forse a cui voleva troppo bene a cui credeva troppo.”

Pier Paolo Pasolini

I brani proposti sono tratti dalle seguenti opere:

Pier Paolo Pasolini, La religione del mio tempo, Milano, Garzanti, 1961.

Jean Paul Sartre, L’esistenzialismo è un umanesimo, Milano, Mursia.

Cesare Pavese, Prima che il gallo canti. La casa in collina, Torino, Einaudi, 1959.

Franco Fortini, Foglio di via, Torino, Einaudi, 1984.

Umberto Ungaretti, Vita d’un uomo: Il Dolore, Milano, Mondadori, 1947.

Ernest Hemingway, Per chi suona la campana, Milano, Mondadori, 1948.

Elio Vittorini, Uomini e no, Milano, Mondadori, 1980.

Italo Calvino, Il sentiero dei nidi di ragno, Torino, Einaudi, 1964.

Davide Lajolo, Classe 1912, Milano, Mondadori, 1975.

Renata Viganò, L’agnese va a morire, Torino, Einaudi, 1954.

Beppe Fenoglio, Una questione privata, Torino, Einaudi, 1965 (pubblicato postumo).

Dello stesso autore si ricorda anche il romanzo Il partigiano Johnny, Torino, Einaudi,1978.

Pier Paolo Pasolini, Lettere, Torino, Einaudi,1986.